«Se vuole la gloria, Matteo Renzi deve cercarla in Libia indossando la mimetica dell’esercito italiano».
L’editoriale di Andrea Cangini, direttore del Quotidiano Nazionale, è oggi nella maggior parte dei bar di Firenze, in prima pagina su La Nazione. Riprende provocatoriamente quanto fino a ieri era possibile leggere solo su Il Foglio, tra i quotidiani in edicola. La crociata invocata da Giuliano Ferrara, per fermare l’avanzata del “nemico musulmano” non è cosa nuova. Giustificò gli interventi di Bush jr., mentre non fu necessaria per la destabilizzazione di Libia e Siria, portate avanti da due premi nobel della pace: Unione Europea e Obama. Il mito dello scontro di civiltà continua evidentemente ad essere coltivato negli ambienti più reazionari e conservatori del Paese.
Non c’è alcuna gloria nella violenza, nella guerra, in uno strumento legittimo solo se utilizzato come ultima possibilità di difesa.
L’assassinio di Khaled al Assad, archeologo a capo del sito archeologico di Palmira, decapitato dall’Isis, è stata l’occasione per un vuoto esercizio di retorica da parte della classe politica italiana. Doverose le condoglianze e il momento di dolore, nel rispetto necessario per chi è stato colpito dal lutto. Però dispiace constatare che a questo si sono accompagnate solo le bandiere a mezz’asta nei comuni e nei luoghi di cultura dello Stato, oltre ai minuti di silenzio alle feste del Partito Democratico.
Mentre la destra invoca nuove guerre di invasione, il campo dei presunti progressisti sembra voler chiamare al silenzio.
Lo stesso silenzio che sta lasciando morire centinaia di compagne e compagni curdi, osservando impotente l’offensiva di Edogan che in Turchia cerca di cancellare l’opposizione di sinistra, recentemente entrata nel parlamento curdo.
Lo stesso silenzio che ha accompagnato la destabilizzazione del Medio Oriente, in cui non esistono più molte delle frontiere disegnate dall’occidente durante i secoli di sfruttamento e colonizzazione. L’immigrazione, le primavere arabe, la tutela dei diritti umani: sono sempre e comunque slogan nelle bocche dei primi ministri che promuovono sofferenza e morte in paesi più poveri (o che usano quelle stesse categorie per coltivarsi un consenso popolare che umilia l’intelligenza).
Il PKK è una delle poche forze che combatte in nome di valori apertamente democratici e si oppone all’Isis. Chiede che ci sia una coalizione internazionale che riconosca il sacrificio di chi combatte al posto nostro, contro la barbarie nata dalle ceneri delle guerre umanitarie.
Iran e Russia, inoltre, sono interlocutori imprescindibili, così come la situazione siriana deve risolversi in modo diplomatico, cessando il sostegno ad una guerra civile che nelle intenzioni della Nato avrebbe dovuto abbattere Assad in pochi mesi (sono passati ormai anni, sui cadaveri di migliaia di civili).
Recuperare la diplomazia e la dimensione internazionale come soluzione alla destabilizzazione del Medio Oriente non basta. Ci vuole anche la capacità di riconoscere l’errore compiuto in Iraq, Libia e Siria da parte del blocco Nato, cessando immediatamente la complicità che vede Stati Uniti ed Unione Europa complici dell’avanzata dell’Isis. Costringere Turchia e monarchie del Golfo ad abbandonare il loro sostegno (più o meno diretto) al Califfato, rompendo l’isolamento dei curdi, sarebbe un ottimo punto di partenza. Così come è intollerabile il silenzio sulle condizioni di salute e di detenzione dei prigionieri politici nelle carceri turche.
Per questo saremo impegnati a chiedere in tutti i livelli istituzionali, comunali e regionali, riconoscimenti formali e impegni di sostegno alle realtà curde, che per altro ad oggi sono invece ancora iscritte nelle liste delle organizzazioni terroriste (ricordiamo che Ocalan è nelle carceri turche, dopo essere stato arrestato in Italia).
Non c’è gloria nei sogni militaristi di intellettuali, politici da salotto e giornalisti a cui prudono le dita; la gloria è nella pace e nella difesa dei popoli.
Partito della Rifondazione Comunista Firenze
Immagine liberamente ripresa da lastampa.it