Comitato Politico Federale Ottobre 2016 – Relazione introduttiva

Relazione di Dmitrij Palagi, Segretario provinciale PRC Firenze al Comitato Politico Federale – 05 ottobre 2016 – Firenze

Un cucciolo di orso bianco, in difficoltà su un ghiacciaio in scioglimento. Questa è stata una delle immagini caratterizzanti il processo di globalizzazione alle porte del nuovo millennio. Le contraddizioni evidenziate dai movimenti politici dello scorso decennio ponevano la questione ambientale tra le priorità, non solo attraverso il fenomeno dei Verdi (in Europa) o per opera di Al Gore, sconfitto candidato alla Casa Bianca ed autore di un noto documentario ambientalista del 2006. La concentrazione di anidride carbonica nell’aria ha registrato valori particolarmente elevati anche nell’appena trascorso mese di settembre, rafforzando gli argomenti di chi accusa di vacuità gli accordi internazionali (protocollo di Kyoto, COP21 e Accordo di Parigi, per citare gli ultimi).

L’effetto serra non è più un argomento diffuso nei bar, ma difficilmente si può condividere la valutazione di chi ritiene un’adeguata soluzione il “far diventare sexy” l’efficienza energetica (sul Sole 24 Ore di oggi1). Il conflitto capitale-ambiente è una chiave di lettura dei processi di mutamento meno seducente nel sistema di informazione contemporaneo, su cui però dovremmo tentare di insistere con maggiore efficacia rispetto al passato.

Rimettere al centro del dibattito politico globalizzazione e capitalismo vuole anche dire affrontare i principali problemi presenti nella quotidianità, seppure indirettamente. Dai flussi migratori all’esistenza stessa dei confini, facendo riferimento ad una categoria di sovranità nazionale evidentemente stravolta dai cambiamenti avviatisi nel secolo scorso. Dall’organizzazione del sistema economico e produttivo ai trattati internazionali (di cui il TTIP è solo uno dei tasselli). Dal pareggio di bilancio in Costituzione al troppo superficiale dibattito sull’Europa (e l’Unione Europea) che da lungo ci accompagna. Più volte ci è capitato di fare riferimento all’area del Medio Oriente (per la questione palestinese ed i conflitti scatenati per volontà della NATO o di alcuni dei suoi paesi membri), meno spesso abbiamo guardato all’America Latina, interessata da una pesante reazione al successo del movimento altermondialista del XXI secolo (socialista, dell’izquierda, populista, o come lo si vuole definire). Rischiamo di vivere la politica internazionale esclusivamente come un settore specifico, quale sicuramente è, perdendo la visione di insieme.

Come diceva Mao Zedong, bisogna sempre «avere le cifre in testa». Oggi, il 10% della popolazione mondiale detiene l’86% del capitale disponibile. L’1% detiene da solo il 46% di questo capitale. E il 50% della popolazione mondiale non possiede esattamente nulla, lo 0%. Si capirà facilmente che il 10% che possiede quasi tutto non ha nessuna voglia di essere confuso con chi non ha nulla, e neppure con i meno fortunati fra quelli che si spartiscono il magro 14% rimanente. Del resto, in termini molto generali, un gran numero di quelli che si spartiscono quel 14% sono divisi a loro volta fra amarezza passiva e desiderio feroce di conservare quel che hanno, soprattutto tramite il sostegno che, con l’aiuto del razzismo e del nazionalismo, essi apportano agli innumerevoli sbarramenti repressivi contro la terribile «minaccia» che scorgono nel 50% che non ha nulla. Tutto ciò conduce al fatto che lo slogan – che si pretendeva unificatore – del movimento Occupy Wall Street, ovvero «Noi siamo il 99%», era perfettamente vuoto. I partecipanti a questo movimento, pieni di buona volontà che dobbiamo apprezzare, con ogni probabilità erano soprattutto giovani provenienti da famiglie posizionate da qualche parte nel mezzo, né fra i veri diseredati né fra i veri ricchi. La classe media, insomma, di cui la propaganda vanta l’amore per la democrazia, il fatto che ne sia il pilastro. Ma la verità è che l’Occidente fortunato è pieno di persone che provengono da questo «mezzo», da questa mediana che, senza trovarsi nell’1% dell’aristocrazia possidente né fra il 10% di solidi proprietari, non trema tuttavia meno di questi davanti al 50% dei diseredati totali e, aggrappandosi alla minuscola frazione del 14% di risorse che gli spetta spartirsi, fornisce al capitalismo globalizzato la truppa di sostenitori piccolo-borghesi, senza la quale l’oasi “democratica” non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivere2.

Alain Badiou (che pure non è qui considerato un autore di riferimento) propone un’alleanza tra intellettuali del 14% e il 50% dei diseredati, richiamandosi a modelli politici rivendicati, in ambienti europei, per decenni. Tralasciando le aspirazioni dei filosofi rispetto all’ambito della prassi, la lunga citazione è utile per richiamare una serie di interrogativi attorno alla nostra identità, al chi siamo nel mondo in questa fase storica. Diamo per scontato di essere figli della Rivoluzione d’Ottobre e di Marx, o di altri episodi, a seconda del percorso formativo e culturale di ognuno di noi (gli eterogenei “ismi” del comunismo).

Non possiamo risolvere (o liquidare) in una Federazione ed in breve tempo una ridefinizione delle categorie di analisi; sono consapevole che le relazioni di questi Comitati Politici risultino a tratti noiose e in alcuni passaggi del tutto inadeguate. Lo scopo è però quello di evitare che prevalga una spinta inerziale in cui si stanno consumando troppe delle energie che abbiamo, quasi cercassimo di salvare il possibile, in attesa della fine. Dobbiamo riuscire a ricreare un senso di appartenenza per cui le patate sbucciate alla festa sono funzionali ad un progetto che aspira ad un mutamento del sistema economico, inevitabilmente capace di scardinare un capitalismo globale e sovranazionale.

I percorsi di formazione ed autoformazione avviati vanno anche in questa direzione ed è importante rivendicare il tentativo in corso. Ricostruire una visione di insieme, fatta di punti interrogativi oltre che di informazioni e dati, sarà in definitiva più utile di qualsiasi convegno o scuola di partito (durante le quali recentemente si sono esibiti Matteo Renzi e Matteo Salvini, coinvolti dalle loro forze politiche).

A livello nazionale la priorità sarà ovviamente l’impegno nella campagna referendaria, sviluppando un’azione politica efficace nell’esporre le ragioni di classe per cui votare no. Si tratta di sintetizzare, in modo complementare, non competitivo, la posizione delle comuniste e dei comunisti rispetto alla scadenza del 4 dicembre. Nel corso della prossima settimana organizzeremo un incontro informativo ed organizzativo per coordinare la distribuzione del materiale che produrremo, cercando di attivarci anche in canali tradizionalmente poco curati nell’attività politica, per incontrare la parte di elettorato ormai rassegnata e legata ad un astensionismo non occasionale.

Se sul piano della forma e della comunicazione cercheremo di caratterizzarci come propositivi e incrinare la percezione dell’identità comunista come un residuo del passato, non mancherà l’opportunità di fare del referendum un’occasione di radicamento sul territorio sulla base dei contenuti. Le manifestazioni del 30 settembre e del primo di ottobre (di Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana) dimostrano come le diverse sigle cerchino di fare di questo appuntamento elettorale anche un’occasione di visibilità, come è inevitabile che sia in una stagione dove la politica pare consumarsi esclusivamente sul piano della comunicazione. Evitando ogni polemica interna al fronte del no, dovremo essere in grado di spiegare che esiste ancora oggi un’organizzazione che si oppone al Governo di Renzi sulla base di quella lettura della realtà per noi caratterizzante. Sarebbe poco pratico anticipare quanto verrà condiviso e proposto la prossima settimana, però è utile evidenziare come i contenuti saranno in linea con le iniziative politiche già svolte (corso di formazione, iniziativa di apertura della festa provinciale a Sesto Fiorentino di luglio, iniziativa alla festa nazionale di settembre). Non difenderemo la Costituzione, ci impegneremo per una campagna per la sua attuazione, che viva il no come una spinta al recupero della conflittualità sociale da troppi anni parcellizzata ed isolata da parte delle organizzazioni politiche, previste dalla Costituzione (sindacati e partiti). Dovremo essere in grado di spiegare che il vecchio, la continuità, la conservazione è propria di chi completa un disegno di svuotamento della democrazia e dell’uguaglianza sociale avviato da molti decenni. Diritti dei lavoratori, scuola, sanità, pensioni, conservazione della memoria (e quindi antifascismo): il Ministro Boschi si è fatta interprete di una volontà espressa dalla classe a noi avversaria, non priva di contraddizioni ma sempre pronta a indebolire le lavoratrici ed i lavoratori (oltre agli studenti, ai pensionati e ai settori sociali più deboli). Non è un caso che sia scarso l’entusiasmo da parte delle destre rispetto all’opposizione a questo esecutivo (che Luca Ricolfi, sul Sole 24 Ore, già nel 2015, ricordava aver fatto tutte le “riforme” che il centrodestra avrebbe potuto realizzare se ne fosse stato capace3).

Niente abbiamo in comune con Giorgia Meloni, sempre pronta a chiedere una revisione in chiave presidenziale del nostro assetto istituzionale. Nulla ci accomuna alla Lega Nord, secondo cui la sovranità è uno strumento utile alla conservazione delle frontiere.

Ad una riunione del Comitato del No provinciale, in cui si ritrovano Movimento 5 Stelle e le varie forze della sinistra, un esponente di Alternativa Libera è intervenuto rivendicando la necessità di non essere “né di destra, né di sinistra”, entrando nel merito delle questioni e tralasciando le appartenenze. Noi dovremo essere in grado di dimostrare il senso di essere comunisti in Italia oggi proprio entrando nel merito delle questioni, evitando di ritrovarci schiacciati in un angolo dalle varie tattiche dei sopravvissuti della sinistra, convinti che l’unico modo per uscire dalla crisi delle varie forme di rappresentanza sociale sia quello di evitare patti raffazzonati e liste elettorali di salvataggio (evitando però di rinchiuderci in qualche casa del popolo con risibili percentuali di radicamento sociale effettivo).

Il referendum deve essere quindi una declinazione specifica per i prossimi due mesi di attività politica, che dobbiamo imparare a svolgere in continuità, senza trascurare alcun aspetto sostanziale della politica, da troppo tempo abbandonato (non solo in Italia).

Per questo la seconda festa nazionale organizzata dalla Federazione di Firenze viene citata solo in conclusione, per evitare che i nostri successi si trasformino nelle nostre gabbie. La capacità di andare avanti deve esserci propria sia nei momenti di difficoltà (come quasi tutte le esperienze elettorali nazionali) che in quelli positivi (i risultati economici, quelli organizzativi, le elezioni a Sesto Fiorentino).

Abbiamo già avuto modo di festeggiare e riconoscerci i meriti dell’impegnativa estate appena trascorsa. Ci confermiamo una realtà riconosciuta positivamente dagli altri territori e, soprattutto, da quelle compagne e compagni con cui lavoriamo nel merito delle battaglie quotidiane, anche se non sono iscritti a nessun partito, o quantomeno al nostro. Non ci adageremo quindi su ciò che abbiamo fatto ma guarderemo al molto che resta da fare.

Il 4 dicembre, il referendum regionale per la sanità, il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, la continuità alla conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori, l’importante movimento che attraversa il mondo della scuola, la capacità di ricostruire una visione di insieme e globale, da comuniste e comunisti, rimane la nostra priorità. Abbiamo già elencato i risultati raggiunti, allo scorso Comitato Politico Federale. Da ogni passaggio dobbiamo uscire rafforzati, come partito, a disposizione per il mutamento sociale verso cui siamo impegnati (perché siamo strumento e non fine), ma capaci di non rimanere intrappolati nell’autoreferenza di un sistema politico sempre più vuoto, circondato da un non entusiasmante contesto sociale.


1 Jacopo Giliberto, E ora la parte più difficile, il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2016, p. 20.

2 Alain Badiou, La vera vita, Ponte alle Grazie, Milano, 2016, pp. 34-36.

3 «Renzi è già abbastanza di destra da lasciare ben poco spazio a un’opposizione dello stesso tipo. Pensate a quel che ha fatto o sta facendo sulla Costituzione, la legge elettorale, l’articolo 18, i tagli alla spesa pubblica, la riduzione dell’Irap, gli sgravi sul costo del lavoro, la riforma della magistratura (responsabilità civile dei giudici), la gerarchia nella scuola (potere di assunzione ai presidi). Vi sembrano cose di sinistra? No, sono cose ragionevoli, più che ragionevoli, ma abbastanza di destra. Tutta la destra che l’Italia può realisticamente concedersi sta già nell’agenda di Renzi. E infatti Renzi miete consensi anche nell’elettorato tradizionale della destra, fra i lavoratori autonomi, i professionisti, gli imprenditori.Il punto debole di Renzi, sul piano sociale, sono gli esclusi, gli outsider, le donne e i giovani cui ama rivolgersi ma per i quali sta facendo pochissimo. Impegnato com’è a catturare il consenso di entrambe le basi sociali, quella tradizionale della sinistra (con gli 80 euro in busta paga) e quella tradizionale della destra (con il Jobs Act), Renzi sta scordando la Terza società, fatta di disoccupati, lavoratori in nero, donne e giovani “scoraggiati” che un lavoro non lo cercano più perché hanno perso ogni speranza di trovarlo. Sono 10 milioni di persone, cui pensano in pochi, e che non sembrano interessare né la destra né la sinistra, né il governo né l’opposizione, né i populisti alla Grillo né i nostalgici alla Landini e Cofferati» (Luca Ricolfi, Di quale opposizione ha bisogno l’Italia, il Sole 24 Ore, 15 marzo 2015, online qui).

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