Manuela Ciriello, 8 marzo 2018
Oggi, 8 marzo 2018, ha ancora senso festeggiare la giornata della donna, in questo periodo storico?
Mi verrebbe da dire che ha ancora un senso, anche se certamente non come festa tra trucco e parrucco, in locali per sole donne.
Oggi le donne non vivono condizioni migliori rispetto a quelle delle prime a cui fu data la possibilità di denunciare le violenze che subivano in famiglia.Di recente ho visto un’intervista su Rai Storia registrata nel periodo attorno al ’68, dove una donna racconta del marito che la picchiava perché era considerata di sua proprietà, perchè sua madre, quando lei le si era rivolta per chiedere aiuto, le aveva risposto che questa era la croce da sopportare nel matrimonio, per le donne.
Questa cultura della supremazia del marito sulla moglie, raccontava la donna, era giustificata anche in chiesa, dove le si diceva che per essere una buona moglie si doveva sopportare tutta questa violenza.
Agghiacciante la risposta data alla domanda sul perché si fosse sposata. «Per uscire dalla famiglia. Pensavo di trovare la libertà, invece ho trovato una prigione».
Questa intervista mi ha colpito molto. A 50 anni di distanza, con le cronache degli ultimi anni sul femminicidio, nonostante il tentativo di additare lo straniero come nemico, sappiamo che nella maggior parte dei casi di violenza il nemico vive con noi.
Per quanto esista una procedura di denuncia, spesso ci si scontra con un sistema in cui diventa complicato per la donna, nello svolgimento della giustizia, anche dentro i tribunali, ottenere ragione. Quest’ultima viene infatti messa sotto i riflettori, insinuando come se la sarebbe cercata… Una mentalità italiana difficile da sradicare anche quando la violenza è evidente. Riconoscere il problema in tutte le sue manifestazioni è fondamentale.
Resto convinto dell’importanza della denuncia, anche se per una donna è doloroso e pesante, ma è l’unico modo per cambiare il sistema anche all’interno della giustizia, creando percorsi di riconoscimento, in cui la parte lesa non si veda attenuare la gravità del reato perché proveniente dal marito. Non possiamo più sopportarlo.
Anche nel caso del divorzio la donna non trova un’immediata scappatoia, affrontando mille difficoltà, tra i tempi della richiesta e delle sentenze.
Le donne hanno lottato molto in questi 50 anni, ma, per fare un esempio, in ambito lavorativo ancora non abbiamo la parità di salario rispetto agli uomini.
Sul diritto all’aborto, malgrado l’approvazione della legge 194 da ormai diversi anni, ci si trova ancora davanti a medici obiettori di coscienza, che si pongono di fronte alle donne come se queste potessero scegliere di sottoporsi all’interruzione di gravidanza “per piacere”, come se potesse essere ritenuta una scelta semplice da ostacolare all’intero di una struttura ospedaliera.
Dovremmo piuttosto riflettere sul perché la donna arrivi a una decisione del genere, denunciando tra le possibili concause i salari troppo bassi, la scarsa presenza di strutture pubbliche di supporto alla maternità, come gli asili (con prezzi troppo alti, liste d’attesa per le realtà comunali), ecc…
Per cui la mia riflessione è che sì, oggi, come ieri, ha ancora senso continuare a festeggiare l’8 marzo.